Economia

I playmaker dell’idealità

Al centro delle relazioni, richiamano ai valori dell’impresa, orientati al servizio: i dirigenti delle imprese cooperative secondo il Centro studi Cgm

di Giampaolo Cerri

Non più solo fondatori. La dirigenza del non profit italiano sta cambiando pelle, come spiega il sociologo Flaviano Zandonai, ricercatore del Consorzio Cgm, redattore di Impresa sociale e autore, anche per l?Istituto studi sviluppo aziende non profit dell?Università di Trento, di varie ricerche sul tema. Zandonai sta curando un nuovo studio che ha come orizzonte la cooperazione sociale, l?ambito più professionalizzato del non profit italiano. «Sì, il problema che si va ponendo nell?ultimo periodo», spiega, «è quello di una diversificazione della classe dirigente di questo settore. Agli iniziatori, a quanti hanno guidato cooperative che avevano spesso contribuito a fondare, scalandone internamente tutti i ruoli, si vanno affiancando i giovani che arrivano dalla vasta offerta formativa messa in piedi negli ultimi anni dagli atenei». Stanno cioè cominciando a collocarsi i manager del non profit che escono dai corsi di Trento, di Forlì, della Bocconi: «Venticinquenni, laureati e ?masterizzati? con una forte aspettativa professionale». E la sfida, per la cooperazione sociale, diventa gestire l?integrazione fra questi diversi profili dirigenziali, «pena lo scatenarsi di conflittualità sul piano gestionale», osserva lo studioso. Amalgamare cioè, con processi di politica delle risorse umane, l?imprenditore sociale della prima ora, che viene del basso, che ha scalato tutti i livelli operativi della propria organizzazione, e i quadri supertecnici che arrivano dalle facoltà e dai corsi di specializzazione. Il profilo del primo, manager-fondatore, è abbastanza delineato. Una ricerca dello stesso Zandonai, Nuovi manager per nuove cooperative, pubblicata tre anni fa, lo mette sufficientemente a fuoco. Si tratta di una figura «più centrale che apicale», ricorda, «al centro delle relazioni e sempre chiamato a gestire la leva valoriale, verso l?esterno e l?interno». «Aspetto questo», dice lo studioso, «che è tanto più evidente quanto l?organizzazione che guida è multistake holders, ovvero porta interessi diversi e il dirigente non si misura solo con i soci, ma anche con utenti e dipendenti». Un playmaker dell?idealità che permea l?impresa sociale. Un professionista con una forte motivazione ideale, molto soddisfatto del proprio lavoro e che ha una coscienza comune: è infatti «attento al servizio anche se ormai non è più coinvolto direttamente nell?erogazione», ma, allo stesso tempo, è anche un imprenditore che «presenta un?attenzione specifica e stabile all?organizzazione, in quanto luogo». Un dirigente che esercita la leadership «attraverso l?innovazione e l?emulazione»: strategia «abbastanza naturale per persone che hanno maturato una lunga esperienza a livello operativo». Figure che «esprimono un bisogno formativo preciso», dice Zandonai, «in termini di strumenti tecnici, ma anche di competenze per gestire al meglio le relazioni e, più recentemente, con l?entrata in vigore della 328 e dalla conseguente esigenza di coprogettare, anche elementi di policy making». Professionisti che non annettono al salario un valore decisivo? «Sì e che, soprattutto, rispetto al profit, non guadagnano molto di più dei livelli immediatamente inferiori», dice Zandonai. Nel Terzo settore, la forbice fra retribuzioni del management e livelli più bassi «è molto più stretta che nel privato». Il manager sociale è infatti convinto di beneficiare di componenti retributive non salariali come la soddisfazione anche se, «man mano che il settore si va strutturando, cresce anche l?attenzione all?aspetto della remunerazione». Non bisogna dimenticare che la cooperazione sociale viene istituita ufficialmente nel 91 e che le esperienze più mature erano appena di pochi anni prima: «I dirigenti infatti sono cresciuti anagraficamente», dice, «e probabilmente, nel tempo, sono emerse esigenze familiari che, una decina di anni fa, erano meno pressanti».


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